Centoquindici musicisti e compositori contemporanei ritratti da Roberto Masotti tra il 1974 e il 1981 con la costante (ma sempre variabile) presenza di un tavolino come attrezzo di scena che viaggia sempre insieme al fotografo.

L’anima delle foto.
Ci sono immagini di cui si dice che sono “scatti rubati”. Ma ci sono molti paesi o etnie, in Asia, Africa, America settentrionale e latina, in cui la fotografia è considerata un altro genere di furto: quello dell’anima. La fotografia è vista come un sortilegio, una magia che intrappola l’anima nella carta.
Fra il soggetto vivente e il fotografo si stabilisce un rapporto istantaneo. Una ventina d’anni fa, a proposito di Giuseppe Pino, Daniel Soutif scrisse che sua prerogativa era quella di «riuscire a invertire il senso degli sguardi; non è più tanto il fotografo a guardare il suo modello, ma questo modello a guardare, affascinato, il fotografo che lo sta fotografando».
Scorrendo dopo tanto tempo “You Tourned the Tables on Me”, si ha piuttosto l’impressione che Roberto Masotti stia fotografando il soggetto che guarda se stesso, la propria anima appunto. Più che dei ritratti sembrano quasi degli autoritratti.
Anthony Braxton ci fece vedere strumenti ad ancia di cui i più neanche conoscevano l’esistenza: sax basso, clarinetto contrabbasso (in metallo!)… Quale migliore soluzione che quella di applicare al noto tavolino il chiver di un sassofono basso? Di Willem Breuker si diceva che suonasse la versione più “commerciale” della free music, per bramosia di denaro (sic!). Ed eccolo che divora avidamente un mucchio di Deutsche Mark. È nota la straordinaria capacità di Han Bennink di far musica con oggetti trovati, spesso in un retropalco o raccolti per strada. I tre paletti poggiati sul tavolino avrebbe potuto utilizzarli come bacchette di batteria e nessuno si sarebbe stupito. Di Kenny Wheeler era proverbiale la timidezza, il totale riserbo. Ricordo un concerto a Cremona in cui aveva iniziato un assolo quasi nascondendosi dietro al pianoforte. Enrico Rava, la cui personalità è di tutt’altro segno, lo invitò perentoriamente con un gesto della mano ad avventurarsi sul proscenio. L’immagine che lo ritrae coperto da un cappuccio lo rappresenta come meglio non si potrebbe. Quando Peter Brötzmann venne invitato al festival di Clusone, si mosse dalla famosa osteria di Geppe solo per salire sul palco a suonare. E il tavolino viene riportato a una sua funzione classica, quella di reggere una bottiglia di vino e un bicchiere. Analoga visione troviamo in Paul Rutherford. Ma ci sono anche la permanente perplessità di Radu Malfatti, il look di Lol Coxhill, eccentrico perfino per il suo eccentricissimo ambiente, i coniugi Westbrook «sitting in an English garden waiting for the sun», l’eleganza interiore ed esteriore di Albert Mangelsdorff (continua ad lib)…
In effetti Roberto non rubava affatto l’anima ai suoi soggetti: erano piuttosto loro a regalargliela.

Intermezzo
Forse, guardando indietro alla cultura del XX Secolo, al di là della moltiplicazione di movimenti, generi e sigle, si possono individuare due grandi filoni di pensiero. Uno, sintetizzabile nel famoso titolo di Walter Benjamin, “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, tutto fondato appunto sulla riproducibilità, su una serialità completamente programmata; e un altro, al contrario, disponibile ad accogliere l’imprevisto, a incorporare l’elemento estemporaneo e casuale, a considerare l’improvvisazione come la più efficace metafora della vita, che è notoriamente non scritta ma – ahinoi – del tutto improvvisata.
Ovviamente il cinema e la fotografia rientrano nel primo filone. E tuttavia anche in queste forme si trovano casi di raffinata capacità di gestire il caso. Prendiamo ad esempio uno dei più rigorosi fra i registi, Ingmar Bergman, in uno dei suoi lavori più celebrati: “Il settimo sigillo”. Prendiamo quel “frammento da antologia” che è la processione della morte sul crinale della collina. Chi ne ricorda il severo bianco e nero, i profili nitidi ma irreali non può che pensare a una scena concepita e realizzata nella cura del minimo dettaglio. Ma non andò proprio così. La troupe aveva finito di girare e stava smontando il set, quando a un certo punto Bergman vide una luce particolare… E disse «fermi tutti, si gira».
Così nasce il frammento da antologia, dal fatto che il signor Bergman si è voltato da una parte, piuttosto che da un’altra, e ha visto una luce, che era lì solo in quel momento, per il capriccio del sole, delle nuvole e del vento, e ha saputo coglierne la bellezza, e trasformarla istantaneamente in un’opera d’arte.

La caduta
Certamente mi è capitato di assistere alla realizzazione di più d’uno dei ritratti contenuti in “You Tourned the Tables on Me”. Ma ce n’è uno solo che ricordo distintamente: quello di Barry Guy.
Al Festival di Moers 1978 Kenny Wheeler si presentò con uno dei più originali quartetti che abbia mai diretto, quello completato da Evan Parker, Barry Guy e Paul Lytton. Ebbe un successo strepitoso. L’unico che mancava alla collezione dei “tavolini” era Barry. A Moers eravamo arrivati a bordo della rocciosa Peugeot 304 Diesel di Roberto Gatti. Per tre giovanotti vestiti un po’ alternativi il passaggio delle frontiere tedesche era raramente facile e rapido, ma il fatto che uno dei tre si portasse appresso un tavolino di ferro battuto tutto scrostato non aiutava.
Eravamo molto stanchi, noi per i chilometri fatti, Barry perché era esausto per aver dato tutto in scena.
Ma il rituale della “foto con tavolino” andava consumato no matter what.
Si sa che il ritratto è quanto di più “posato” esista in fotografia. Non rammento cosa abbia determinato la caduta del prezioso tavolino mentre Roberto inquadrava il soggetto, ma è chiaro che lo scatto era quello che il caso aveva voluto. E di una cosa sono certo: Roberto non avrebbe mai voluto ripeterlo…

Filippo Bianchi

 

Seipersei edizioni ISBN 9791281174009
You tourned the tables on me
Fotografie di Roberto Masotti / Lelli e Masotti Archivio
Testi di R. Masotti, Franco Masotti, Daniel Charles
Biografie e discografia a cura di Roberto Valentino

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