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Create Date15 novembre 2018
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Nabucco (23, 27, 30 novembre), Rigoletto (24, 28 novembre e 1 dicembre) e Otello (25, 29 novembre e 2 dicembre)

“Perché ancora una volta Verdi? Ma perché non basta mai!”: parola di Cristina Mazzavillani Muti, ancora una volta alla regia per la Trilogia d’Autunno, che conclude la XXIX edizione di Ravenna Festival con un trittico di capolavori. Nabucco, Rigoletto e Otello saranno in scena, sera dopo sera, dal 23 novembre al 2 dicembre, in un’appassionante maratona lirica che indaga il genio di Giuseppe Verdi, trasformando il Teatro Alighieri in una vera e propria “fabbrica dell’opera” capace di dare corpo e voce a tre momenti chiave del percorso artistico e umano del compositore bussetano: “più affondi le mani nel suo teatro e più ti accorgi della grandezza o, meglio, della compiutezza della sua scrittura”. Al servizio di questa straordinaria avventura nell’universo verdiano le invenzioni del team creativo, nutrite dalle più moderne tecnologie, e tre direttori d’orchestra che si alternano alla guida dell’Orchestra Giovanile “Luigi Cherubini”: Pietro Borgonovo per Nabucco, il giovane iraniano Hossein Pishkar - allievo della III edizione dell'Italian Opera Academy di Riccardo Muti - per Rigoletto, Nicola Paszkowski per Otello. La Trilogia è resa possibile dal sostegno del Comune di Ravenna, della Camera di Commercio, della Regione Emilia Romagna e del Ministero per i beni e le attività culturali, con il determinante contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna.

Dal 2012 la Trilogia ha esteso il Festival oltre i tradizionali confini estivi, offrendo anno dopo anno l’occasione per un omaggio a compositori simbolo, a titoli indimenticabili, alla sensibilità musicale e drammaturgica di un’epoca. Nel 2018 si rinnova il tributo a Verdi che aveva caratterizzato le prime trilogie e che questa volta si comporrà di due nuovi allestimenti - Nabucco e Rigoletto - e del ritorno dell'Otello applaudito per la prima volta nel 2013. Per ospitare tre titoli, sera dopo sera, il Teatro si è trasformato in un’instancabile macchina produttiva, ma anche in un laboratorio dove sperimentare allestimenti e tecnologie scenografiche: accanto a Cristina Muti, il light designer Vincent Longuemare, il visual designer Paolo Micicché, il visual designer e video programmer Davide Broccoli e Alessandro Lai per i costumi; Alessandro Baldessari cura invece il sound design del Nabucco. Si rinnova inoltre il ruolo del palcoscenico dell’Alighieri come trampolino e palestra per giovani interpreti e cantanti al debutto nel ruolo: è il caso, ad esempio, del Nabucco trentenne Serban Vasile o di gran parte del cast di Otello, a partire da Elisa Balbo, Mikheil Sheshaberidze e Luca Micheletti, per la prima volta nei panni - rispettivamente - di Desdemona, Otello e Iago. Il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” è preparato da Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina, mentre Elisabetta Agostini guida il Coro Voci Bianche Ludus Vocalis.

Non poteva che essere Nabucco ad aprire la Trilogia destinata a ripercorrere la parabola creativa di Verdi, l’opera con cui il compositore nel 1841 risorge dalle avversità del destino e riprende in mano la propria vita, di uomo e di musicista. È in quella partitura che si gettano le basi del successo irresistibile di Rigoletto (1851), primo tassello del trittico “popolare” e tra tutte l’opera prediletta dall’autore. E, in fondo, anche dell’estremo rinnovamento che in Otello (1887) germoglia dal verbo shakespeariano, approdo inevitabile della “parola scenica” verdiana. “Nabucco, Rigoletto, Otello: non è un percorso di ‘crescita’ o di ‘miglioramento’ - sottolinea la regista - ma un ampio arco in cui il genio ci prende per mano conducendoci attraverso le trasformazioni a cui, con inesausto coraggio, ha saputo dar forma. Rimanendo comunque sempre se stesso, straordinario conoscitore dell’animo umano, del sarcasmo, dell’ironia, della crudeltà, della sofferenza, della tirannide... Continuando a mettere a confronto Verdi con Verdi scopri che la sua linfa creativa si rinnova continuamente, che non c’è mai ripetizione. E che ogni sua opera è il segno e il frutto di un determinato periodo storico, di un particolare momento della sua vita”.

Con Nabucco (23, 27, 30 novembre) il viaggio della Trilogia comincia dall’antica Mesopotamia, da un tempo che più non ci appartiene ma che portiamo nelle ossa, perché fra Tigri ed Eufrate affondano le radici della nostra civiltà. Un Nabucco “biblico-archeologico” quindi, che attinge al patrimonio figurativo delle civiltà mesopotamiche da un lato e alla voce del profeta Geremia dall’altro; è proprio a partire dalla Bibbia letta con passione e in un momento particolarissimo e drammatico - la perdita della moglie e dei figli - che Verdi delinea i personaggi dell’opera, illuminandoli e definendoli attraverso il coro. “In Nabucco c’è già tutto il Verdi che verrà dopo, l’amore per la coralità e l’amore per il personaggio. E come in Nabucco Verdi getta i semi di ciò che raccoglierà lungo tutta la vita, su questo palcoscenico è proprio da Nabucco che tutto germoglia”: tanto l’impianto scenico di questo titolo quanto le riflessioni che ne hanno guidato la creazione sono infatti il cuore di tutti e tre gli allestimenti, pur sempre originalissimi grazie ai duttili strumenti della tecnologia e alla volontà di inseguire sempre stupore e meraviglia, senza necessariamente sconfinare nei territori del fantastico.

Così Rigoletto (24, 28 novembre e 1 dicembre) varca la soglia della corte ducale - rigogliosa di immagini che evocano i fasti  della Mantova di Andrea Mantegna, Giulio Romano, Paolo Veronese - per contrapporla al nudo paesaggio di buio e luce dove si consuma il dramma, attualissimo, di Gilda. Qui la funzione del coro è piuttosto quella di commentare l’azione dei personaggi, quasi invitando lo spettatore ad affacciarsi sulle vicende - non dissimilmente dai putti che si affacciano dalla volta della Camera degli Sposi di Mantegna. Gli stessi splendori della corte si riflettono in un ambiguo gioco di specchi che raddoppiano, urtano, accecano, fino a precipitare il pubblico stesso nei quadri scenici, “album illustrati in cui calare il sangue e la carne viva del dramma”. Splende, su Gilda, la luce della conversione e del martirio che illumina anche gli altri titoli: se Abigaillle non può che togliersi la vita per chiedere perdono e Otello si uccide sul corpo di Desdemona nello scoprire l’orrore della propria colpa, Gilda si offre al pugnale per amore; “tutti prendono tragicamente in mano le loro vite affidandosi al giudizio di Dio - nota Cristina Muti - quel Dio dal volto umano su cui Verdi non ha mai smesso di interrogarsi”.

Il seggio dorato che compare nei primi due allestimenti non può mancare in Otello (25, 29 novembre e 2 dicembre), al pari dello stuolo di cortigiani (sempre attuali, in ogni tempo e ogni luogo) che attraversa l’intera Trilogia: perché è il graffio del potere - i suoi sottoprodotti, le sue conseguenze - che marca tutti e tre i titoli, là spingendo alla guerra babilonesi ed ebrei, inebriando il duca di Mantova nel calpestare morale e sentimenti, qui nell’inganno ordinato da Jago per sete, appunto, di potere. In Otello il coro si limita a dipingere le situazioni, lasciando spazio assoluto all’individualità del personaggio: “ovvero l’uomo che, nelle sue infinite sfaccettature, può essere tutto e il contrario di tutto: come accade nella vita, e nel teatro più puro”. Il contrasto che unisce e separa Otello e Desdemona si traduce in una teoria di luci ed ombre. D’altronde è difficile immaginare Otello in un’epoca che non sia il tenebroso Seicento di Caravaggio o di Rembrandt: una lunga, lunghissima notte che si apre proprio con la tempesta che infuria su Cipro, immagine presaga del dramma a venire, del mondo oscuro e violento dove i personaggi, quando li cattura la luce, sono ferite aperte nel tessuto della notte.


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